Da giorni si rincorrevano le voci di una “condizione irreversibile“, dopo la riunione d’urgenza del board FCA ed il moltiplicarsi delle indiscrezioni sul suo stato di salute improvvisamente degenerato: ci lascia, a soli 66 anni, Sergio Marchionne. Era ricoverato in una clinica di Zurigo dal 28 giugno per un problema a una spalla. Nessuno sospettava il terribile epilogo di cui è arrivata da poco l’ufficialità da parte di un comunicato Exor. A Torino, bandiera a mezz’asta da parte della sede FCA e indetti quindici minuti di silenzio alle 13.
Commoventi le parole di John Elkann all’arrivo della notizia: “È accaduto ciò che temevamo, Sergio, l’uomo e l’amico, se n’è andato – ha dichiarato – che il miglior modo per onorare la sua memoria sia far tesoro dell’esempio che ci ha lasciato, coltivare quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale di cui è sempre stato il più convinto promotore. Io e la mia famiglia gli saremo per sempre riconoscenti per quello che ha fatto e siamo vicini a Manuela e ai figli Alessio e Tyler. Rinnovo l’invito a rispettare la privacy della famiglia di Sergio“.
Si tratta indiscutibilmente del manager più importante e discusso dell’ultimo ventennio, avendo raccolto nel 2004 le ceneri di una Fiat sull’orlo del tracollo finanziario per lasciarlo, oggi, come il settimo gruppo automotive globale. Cruciale, nelle sue politiche di “uomo illuminato” — come lo ha definito il presidente John Elkann —, la fusione con Chrysler, da cui segue la denominazione FCA, il convertendo attuato con i principali creditori italiani e il chiacchieratissimo swap con Exor. Incisivo nelle parole, carismatico nella presenza, Marchionne era entrato in gioco senza cravatta, con la promessa di indossarla a debiti coperti. Ci è riuscito, anche fisicamente, poco prima di andarsene, lo scorso primo giugno.
Marchionne, il manager
Nato a Chieti, in Abruzzo, ma spostatosi in Ontario a soli 14 anni, Marchionne intraprende inizialmente gli studi in filosofia per poi approdare alla finanza e al management. La consacrazione vera e propria avviene quando assume le redini della svizzera SGS, una società di analisi, controllo e certificazione, che nell’arco di poco tempo tira fuori dalla crisi. Dal 2003 entra nel CDA della Fiat, designato da Umberto Agnelli come successore, appena mezz’ora prima della dipartita di quest’ultimo. Nell’anno successivo assume il comando di un colosso claudicante, che faceva segnare una perdita stimata di due milioni di euro al giorno. Di lì in poi si parla di storia concreta e tangibile, dalla nascita di FCA al grande impegno in F1 con Ferrari, dalla tentata acquisizione di Opel al rilancio di Alfa Romeo come marchio di lusso.
Sergio, l’uomo
Marchionne era prima di tutto una macchina da dibattito pubblico. Agghindato con l’insolito, informale ma immancabile maglioncino, Sergio era un uomo che parlava con un linguaggio semplice ma incisivo, concreto e suggestivo, lontano dal freddo vocabolario aziendale dello stereotipato manager. Diceva che avrebbe voluto fare il giornalista dopo la fine del suo impegno in FCA e che mai avrebbe potuto intraprendere la via della politica. Dove, a onor del vero, raccoglieva simpatie tanto dall’area conservatrice — Berlusconi voleva candidarlo come ministro — quanto dai progressisti — come dimostrano le sincere parole di stima di Renzi — seppur avversato dalla sinistra radicale e da qualche sindacato. Una cosa è certa: se l’eredità concreta di Marchionne è difficile da amministrare per chiunque prenderà il suo posto, lo spirito che lo animava, invece, sembra difficile da abbracciare anche per il più visionario dirigente.