Niki Lauda era il più immortale in uno sport – meglio chiamarlo “circo” – pieno di individui ad un passo dalla sovrannaturalità. Era il più immortale per una straordinaria serie di cause: il fatto di aver dominato la Formula Uno nel suo periodo aureo, quando la F1 era innegabilmente la competizione più ambita e blasonata nella percezione popolare; l’atteggiamento attivo nei riguardi del mezzo, primo esteta della messa a punto e primo pilota ad interessarsi per un fine tecnico all’avanzamento tecnologico della monoposto che conduceva; la lingua svelta, pungente, glabra con la quale non le mandava a dire a nessuno con una certa eleganza un po’ kitsch e un po’ burbera, secondo uno stile maledettamente teutonico. E poi, ovviamente, per il fatto di essere tornato dall’inferno, accarezzato in viso dalla signora con la falce nella foresta nera del Nurburgring. Quarantadue giorni dopo aver rischiato di morire per ustioni, tanto esterne quanto interne, era di nuovo nell’abitacolo della sua Ferrari a giocarsi il titolo. E poi ha vinto, si è ritirato, è tornato, ha vinto ancora e quindi si è ritirato nuovamente. Ma è rimasto sempre nell’orbita della Formula Uno, alfiere e burattinaio della Mercedes, che nonostante gli anni suonati ha continuato a non mandarle a dire a nessuno nel team più vincente nell’epoca della turbo ibrida.
I primi tempi
Nato a Vienna il 22 febbraio 1949 da una ricca famiglia di banchieri, mollò gli studi per racimolare un prestito che gli consentisse di fittare una vettura in Formula Vee. Le cose non andarono bene, il padre e la madre non lo appoggiavano in questa carriera che, agli occhi dell’alta società austriaca del tempo, sarebbe apparsa come dozzinale e fuori luogo. La carriera motoristica di Niki sembrava, così, ad un punto morto all’inizio degli anni 70: ma Lauda era pronto a scommettere sulla sua vita per realizzarsi, tanto in senso lato quanto in senso figurato. Con i proventi di una polizza sulla vita ottenne un nuovo grosso prestito, grazie al quale ottenne un posto nella scuderia March di Formula 2.
La svolta
“Andammo a Thruxton per dei test. Girò per primo Lauda: gli feci fare una decina di giri, chiedendogli di spremere più che poteva l’auto, perché avevamo diverse modifiche e volevamo capire pregi e difetti” ha raccontato il direttore sportivo della scuderia Robin Herd in un’intervista nel 1980. Herd sottolineò come a primo acchito Lauda non si presentava come un pilota e la cosa gli fece presagire che non fosse affatto abile. “Cedette allora la sua monoposto a Ronnie Peterson. Quando Ronnie salì sulla monoposto io e Niki andammo dietro al guardrail di una curva molto veloce del tracciato per ammirare meglio il comportamento della 712M. Quando fece la curva, Ronnie Peterson mandò il retrotreno della March in sbandata, facendo il filo al guardrail. Lauda fece un salto all’indietro e, completamente bianco in volto, disse ‘Robin, io in vita mia non riuscirò mai a correre in quel modo!’ Quando tornammo ai Box chiesi a Niki i tempi ottenuti da Peterson nella sua migliore tornata; rispose ‘Io ho fatto 1’14″0, penso perciò che il tempo di Ronnie sia attorno al minuto e 12 secondi. Invece il miglior tempo di Peterson fu di 1’14″3’. In quel momento capii che Niki doveva avere qualcosa di speciale“. Lo chiamavano “Il computer” per il suo modo freddo, calcolatore e razionale di muoversi e agire, figlio di una precisione chiurgica in un parco piloti che vantava sfasciarozze e saltinbanco, cavalieri del novecento uniti in un rischio che li rendeva più vivi che mai. E tanto per essere unico, controcorrente, singolare, Lauda entrò nella Formula Uno come pagante.
L’esordio in F1
Nel 1971 con la stessa March calcò le prime scene della F1. Dopo prestazioni altalenanti passò alla Ferrari nel 1974, dove, leggenda vuole, si rese protagonista di un aneddoto particolarmente suggestivo. Fin dai primi test a Maranello la Ferrari 312 B3-74 si rivelò totalmente incontrollabile, fin troppo afflitta da problemi di sottosterzo e poco brillante nello scatto. Ad un certo punto Lauda inveì contro il patron Enzo Ferrari, gridandogli schiettamente: “Questa macchina è una merda“! Da lì, però, maturò una messa a punto con l’ingegner Mauro Forghieri che lo condusse alla conquista del primo titolo iridato nel 1975, in una stagione che lo vide brutalmente dominare durante tutto l’arco della stagione. Non fu questa occorrenza però a consacrarlo al grande e al piccolo pubblico. Nel 1976 si consumò uno dei più grandi duelli sportivi in un testa-a-testa tra due rivali e amici: Niki Lauda in Ferrari in un angolo, James Hunt su McLaren nell’altro.
Il duello con Hunter e l’incidente
Uno calmo, caustico e apollineo; l’altro festaiolo, irruente, dionisiaco. Ron Howard ci ha ricamato su un film, Rush. La sfida trovò un punto di svolta nella tagedia. Il 1° agosto 1976 al Gran Premio di Germania, nello sterico circuito del Nurburgring Nordschliefe, Lauda soffrì un incidente che gli condizionò non solo la carriera ma anche la vita: sul volto porta ancora i segni delle ustioni che quasi lo uccisero. Nella curva di Bergwerk per via delle gomme nuove e ancora fredde perse aderenza su di un tratto d’asfalto bagnato: la sua Ferrari imbizzarrita finì contro una roccia al lato della carreggiata e la monoposto rimase spiattellata nel bel mezzo della pista, con il pilota privato del caso, sbalzato via durante l’urto. L’auto prese fuoco a causa della perdita di benzina e Niki rimase intrappolato in un turbine di fiamme. Harald Ertl, Guy Edwards e Brett Lunger, piloti in corsa, si fermarono in barba ai regolamenti sulla sicurezza che non prevedevano gesti del genere. Ma fu soprattutto l’intervento di Arturo Merzario a salvare Niki, il quale non indugiò a lanciarsi nelle fiamme per acciuffare il corpo dell’austriaco e trarlo in salvo. Le condizioni di Lauda rimasero gravissime non soltanto per le ustioni dirette riportate ma anche per l’enorme quantità di gas potenzialmente letali che aveva inalato. Indotto in coma, fu dichiarato fuori pericolo di vita quattro giorni dopo.
Gli ultimi anni competitivi
Dopo appena quarantadue giorni, Niki era di nuovo in pista a dispetto di quanto gli dicevano i medici, giornalisti e il buonsenso: si giocava ancora il titolo e nonostante sputasse sangue, non ci vedesse bene ed era stato ad un passo dalla morte, la voce della sua passione non poteva rimanere inascoltata. In quell’occasione partì quinto in griglia e giunse quarto al traguardo. Anche se fosse arrivato ultimo il mondo lo avrebbe idolatrato. Lui, però, era Niki Lauda e del mondo se ne fregava abbastanza. Il duello con Hunt rimase vivo fino all’ultima gara in Giappone. A causa di condizioni meteo proibitive i piloti non volevano partire ma Ecclestone, a causa della gestione dei diritti televisivi, spinse per lo start. Sembra che ci fosse un accordo tra tutti i partenti: 5 giri e poi tutti ai box. Lauda lo fece, Hunt no. Ottenne il piazzamento sufficiente a fargli vincere il titolo. Dopo essere passato alla Brabham, si ritiro nel 1979 per dedicarsi alla sua compagnia aeronautica, la Lauda Air. Tornerà a correre nel 1982 con un contratto alla McLaren e a vincere, con la stessa scuderia, il titolo iridato del 1984 mettendosi dietro le spalle pezzi grossi del calibro di Riccardo Patrese, Michele Alboreto e Nelson Piquet. Abbandonerà definitivamente il volante nel 1985 ma la Formula Uno no. Quella Niki Lauda non l’ha mai abbandonata. Lui ed il suo immancabile cappellino rosso che ci mancherà così tanto.