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Alonso, l’ultimo samurai della Formula Uno: 17 anni tra alti, bassi, eccessi e speranze

La piega sbagliata

Terminata la parentesi con Renault, Fernando passò in McLaren senza troppe garanzie: la scuderia di Woking aveva dimostrato di avere un’ottima vettura ma poco affidabile. E i risultati migliori li aveva avuti con qualche rocambolesca magia di Raikkonen. E il 2007 fu una stagione assurda, rarefatta: vinse Kimi, passato intanto in Ferrari, per il rotto della cuffia all’ultimo GP, beffando i due galli dello stesso pollaio; Alonso e quel debuttante dal sorriso coinvolgente che avrebbe monopolizzato il Circus da lì a qualche anno, Lewis Hamilton.

Al termine di quell’anno Alonso decise di lasciare McLaren, tirato collateralmente in ballo in quella che sarà un penoso episodio di spionaggio industriale. Tramite l’ex capo ingegnere della Ferrari Stepney, la casa inglese si assicurò informazioni tecniche sulla monoposto di Maranello, per cui il team di Ron Dennis fu sanzionato con 100 milioni di dollari di multa e l’azzeramento dei punti in classifica costruttori.

Dalla McLaren, comunque, si diffuse l’idea di un pilota rompiscatole. Alonso s’intrometteva molto negli affari di carattere tecnico, intervenendo in materia di questioni ingegneristiche. E in generale, sopratutto negli scorsi decenni, le squadre preferivano piloti muti anziché personaggi vivaci.